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La tirannia della debolezza

Di Alfredo Maria Bonanno, Tratto da “ProvocAzione” n. 11, Febbraio 1988

Una critica contro l’alibi della “debolezza” troppo spesso addotto dai compagni per giustificare il proprio abbandono dell’azione rivoluzionaria – Così viene alimentato quel senso di impotenza che si traduce in desistenza attiva – A furia di rinunce si giunge a perdere quell’aggressività e quel senso di dignità indispensabili nell’attacco del dominio – Ecco come si diventa individui succubi del potere, flessibili e plasmabili, che hanno perso la voglia di conoscenza di sé e del mondo che li circonda – Il rivoluzionario deve battersi contro questa decadenza fisica e mentaleDappertutto oggi ci imbattiamo nella debolezza. Siamo deboli e quando non lo siamo, ci mostriamo tali, per paura di sembrare diversi.

La sicurezza di sé, la conoscenza di sé e degli altri, e delle cose, non è di moda, anzi sembra roba vecchia, superata, anche di cattivo gusto. Non ci impegniamo quindi a fare meglio e bene le cose che facciamo – sto parlando parlando delle cose che vogliamo fare, non di quelle che ci obbligano a fare – che ci sono pur sempre cose che vogliamo fare, anzi cose per cui siamo disposti a qualunque cosa pur di farle. Ma, contrariamente alla logica stessa, le facciamo male, superficialmente, con approssimazione. E di questa debolezza, ce ne facciamo se non proprio un vanto, almeno una specie di schermo dietro cui nasconderci.

Siamo quindi schiavi della debolezza, di questo nuovo mito che si sta diffondendo dappertutto.

Non è qui in discussione un discorso sulla “forza”, la quale è sempre una forma di debolezza camuffata, ma è un discorso sul modo di respingere l’imbroglio, l’appiattimento dei valori, lo snaturamento degli strumenti per vivere e attaccare i nostri nemici.

Il modello che ci viene proposto è quello perdente, il modello della vittoria per rinuncia, per abbandono, per rallentamento. In tutte le cose, il potere ha interesse che ci disponiamo in modo adeguato alla realtà attuale. Pensiamo poco, ragioniamo male, subiamo passivamente i messaggi che ci mandano i grandi mezzi di informazione, non reagiamo.

Ci stanno costruendo dentro una personalità che sta a mezza strada tra l’idiota e il collezionista. Da un lato capiamo poco, dall’altro sappiamo moltissimo: tutte cose inutili e dispersive, notizie da enciclopedia tascabile. Ci hanno convinti che abbiamo il diritto di essere stupidi, ignoranti e perdenti.

L’efficientismo lo abbiamo rinviato verso la classe avversa, lo abbiamo isolato come modello produttivistico appartenente al potere. E ciò è stato più che giusto, indispensabile. Fin quando si trattava di danneggiare il nostro nemico di classe era giusto essere assenteisti e rinunciatari. Ma poi abbiamo introiettato il modello, e la parte avversa si è presa la sua rivincita. Siamo diventati rinunciatari anche con noi stessi, con le cose che desideriamo fare.

Così siamo andati alla ricerca delle farfalle del pensiero orientale, dei prodotti e del modo di pensare alternativo, del modello disinteressato e non incisivo. Per non aspettare che i denti ci cadessero di bocca da soli ce li siamo strappati ad uno ad uno. Adesso siamo felici e sdentati.

I laboratori del potere stanno programmando per noi un nuovo modello di vita rinunciataria. Naturalmente, solo per noi. Per la minoranza vincente degli inclusi il modello è sempre quello dell’aggressività e della conquista. Noi non siamo più i barbari violenti e sanguinari che si scatenavano nelle improvvise insurrezioni. Siamo diventati filosofi del nulla, scettici dell’azione, blasé e dandy.

Non ci accorgiamo del fatto che ci stanno restringendo la lingua e il cervello. Non sappiamo quasi più scrivere, cosa importante per comunicare con gli altri, con molti altri. Non sappiamo quasi più parlare. Ci esprimiamo in un gergo striminzito fatto di luoghi comuni televisivi e sportivi, giornalistici e da caserma che sembra aiutare la comunicazione mentre la tradisce svilendola ed evirandola.

 

Ma quel che è peggio, non sappiamo quasi più fare sforzi. Per nessuna cosa, o quasi. Non sappiamo impegnarci. Poche scadenze, pochi fatti da portare a compimento, qualche lettura obbligata, una riunione, un’azione, ci prostrano e ci rincoglioniscono. Al contrario, passiamo ore ad ascoltare (senza capire) una musica priva di contenuti, canzoni in lingue sconosciute, rumori che riproducono la fabbrica o l’auto in corsa o la motocicletta. Anche quando ci perdiamo nella contemplazione della natura (di quel poco che resta) non siamo noi che andiamo a fare una passeggiata, ma è la passeggiata che entra dentro di noi, accettiamo luoghi comuni, schemi ecologici, modelli naturalistici, fabbricati sempre nei laboratori del capitale (quello alternativo, che è peggiore del primo). Ma non sappiamo nulla del vero rapporto con la natura che richiede impegno e forza, aggressione e lotta e non semplice contemplazione.

 

Non mi si venga a fare il discorso sul comportamento aggressivo quale è quello del capitale e dei suoi zombi, comportamento contro il quale dobbiamo necessariamente costruire un nostro comportamento tollerante. So perfettamente cosa sia l’aggressività del capitale e dei partecipanti alla Parigi-Dakar. Non è di questa aggressività che voglio parlare. E, in fondo, nemmeno dell’aggressività. Le parole sono ingannatrici. Qui voglio parlare della necessità dell’agire, che si contrappone al baloccarsi mentre la nave sta andando in fiamme.

O si è convinti delle profonde e decisive trasformazioni che si stanno realizzando in questi anni, trasformazioni nel capitale e nel potere, tali che sconvolgeranno l’attuale assetto della nostra vita per chissà quanti decenni; o non si è convinti. In questo ultimo caso è corretto che ognuno insegua le farfalle del suo sogno: i miti del buddismo, della medicina omeopatica, della filosofia zen, della letteratura d’evasione, dello sport o di qualsiasi altra cosa possa far piacere, compreso il piacevole distacco dalla grammatica e dalla lingua.

Ma se si è convinti della prima tesi, cioè se si è convinti che qui sta andando avanti un progetto che ci vuole ridurre in schiavitù, principalmente una schiavitù culturale in cui saremo anche privati della possibilità di vederci in catene, allora non si potrà più tollerare la tolleranza, e nemmeno l’irriducibile tendenza alla rinuncia e all’abbandono.

Ma non bisogna credere che il discorso che stiamo facendo qui sia attinente soltanto a quei compagni, o cosiddetti tali, che si sono lasciati dietro le spalle un passato di impegno rivoluzionario, e adesso, come se nulla fosse, vanno pascolando pacificamente fra i verdi, gli arancioni, i buddisti, o altre mandrie del genere. Ci riferiamo anche a tutti coloro che sostengono di essere ancora rivoluzionari ma vivono, ogni giorno, la tragedia di un progressivo inquinamento fisico e mentale.

Non si tratta quindi di un banale, e per certi aspetti scontato, appello all’impegno. Di questi appelli, ormai, sono piene le fosse. Stiamo parlando di un progetto da laboratorio, in corso di perfezionamento; un progetto che il capitale sta realizzando per toglierci le possibilità stesse della lotta, a poco a poco e in modo indolore; un progetto che sta camminando di pari passo con le profonde ristrutturazioni dell’interazione formazione economico-sociale capitalista. Il nostro non è quindi un appello volontaristico o, se si preferisce, un grido di avvertimento lanciato nel deserto. Il nostro vuole essere, per quanto limitato e approssimativo, un primo, piccolo, contributo analitico per capire meglio le profonde modificazioni della realtà che ci circonda.