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Ricominciamo daccapo

Di Alfredo Maria Bonanno, Tratto da “L’anarchia”, Numero Unico, 1982

La bellezza dell’anarchia e la luce della libertà non nascono dal semplice impulso dell’ideale e dai sogni che pure ci spingono ad andare avanti. Come la splendida rosa esse fioriranno dal fango che la società divisa in classi continua a produrre.

Non vi sarà anarchia e non vi sarà liberà se non attraverseremo fino in fondo il doloroso sentiero delle insurrezioni, delle rivoluzioni parziali, delle repressioni, delle sconfitte, delle vittorie. Fino in fondo.

Illudersi che qualcuno possa percorrere una via diversa conduce all’aumento del prezzo da pagare.

Noi rivoluzionari anarchici, consapevoli del nostro compito, nella piena coscienza dei limiti della nostra azione, ci riconosciamo per quello che siamo: soggetti agenti di un processo mostruoso e superbo, contraddittorio e lineare, un processo che contemporaneamente uccide la realtà vecchia e fa nascere la nuova. Ma nel fare ciò noi partecipiamo alla realtà vecchia. Vi siamo dentro fino al collo. Spesso lanciamo il nostro cuore oltre l’ostacolo, ma ben poco di più. Sogniamo la totalità rivoluzionaria capace di cambiare noi stessi insieme all’intero sistema dei rapporti sociali, ma gli eventi finiscono per sovrastarci mentre siamo ancora intenti agli adempimenti del passato.

E la tragedia è che non possiamo fare altrimenti. Una volta coscienti della necessità di fare determinate cose non possiamo tornare indietro. Non avremmo più rispetto per noi stessi. Fuggendo ci considereremmo traditori, saremmo traditori.

Per questo siamo orgogliosi di andare avanti. Ricostruiamo puntualmente quello che il nemico ci ha distrutto. Ma la nostra ripetizione non è mai la stessa. Nell’ottica ristretta di una valutazione politica spesso siamo sconfitti e rigettati indietro. Nel processo sociale, considerato nel suo insieme di rapporti, nessuno sforzo è speso vanamente se ha lo scopo di attaccare il potere. E impercettibilmente andiamo avanti.

Questo è un concetto difficile. Vi sono uomini che lo colgono al volo, che lo sentono nella pelle subito. Ve ne sono altri per cui lunghi approfondimenti sono necessari. Per altri ancora non c’è che fare: il senso del fluire della realtà dello scontro di classe resterà per loro sempre incomprensibile.

Fin quando esisteranno compagni anarchici capaci di sentire la logica di questo processo e il ritmo del suo pulsare, sarà sempre possibile dare vita ad unaminoranza di rivoluzionari coscienti della propria funzione, convinti di quello che bisogna fare e determinati a farlo. E questa minoranza, come organizzazione specifica, sarà uno dei principali strumenti di cui disponiamo per accelerare il processo rivoluzionario.

L’organizzazione che questi compagni si daranno potrà prendere nomi e forme diverse, anche in funzione di situazioni contingenti o di diversi livelli dello scontro di classe, ma possiederà alcune costanti: darsi carico di attaccare le strutture e gli uomini di potere, mantenere una coerenza nelle azioni che sia facilmente comprensibile, darsi forme e strutture diverse secondo la necessità del momento, difendersi dagli attacchi del nemico con i mezzi e le cautele necessari, inserirsi nella realtà delle lotte, evitando di farsi ghetizzare con una eccessiva specializzazione delle strutture interne, con una atrofia delle procedure di garanzia.

Nel suo evolversi questa organizzazione sarà ora punto di riferimento e di coagulazione delle forze rivoluzionarie, impresa comune di tutti quei compagni che odiano l’apparenza e la superficialità; ora strumento capace di realizzare progetti anche minimi, attacchi anche marginale, officina di preparazione per progetti più ampi e attacchi più efficaci. A volte prenderà la forma di un’organizzazione specifica minoritaria, perché, in un determinato momento risulta insostituibile l’impiego dei mezzi di cui un’organizzazione del genere può disporre, facendo in modo di non chiudersi nel cerchio della militarizzazione. A volte si allargherà fino a comprendere nuclei dell’organizzazione di massa, capaci però di sfuggire all’equivoco rivendicazionista, elementi di una diffusione sul territorio delle idee della conflittualità permanente, dell’attacco violento e dell’autogestione delle lotte.

La soggettività rivoluzionaria e l’organizzazione oggettiva sono due poli contraddittoriamente capaci di integrarsi e produrre modifiche qualitative l’uno sull’altro. In quanto limiti oggettivi di ogni azione non possono indirizzarsi verso uno sviluppo separato senza andare incontro a chiusure asfissianti e monotoni luoghi comuni. La creatività e l’invenzione, di cui il processo rivoluzionario ha bisogno, non sono il prodotto del soggetto e nemmeno dell’organizzazione. Sono la conseguenza contraddittoria del loro rapporto. Esaltare il primo a scapito della seconda conduce a fatali ingenuità, a purismi fuori luogo, a velleità eroiche, a superbe ma inefficienti affermazioni di se stessi, a ridicole rodomontate. Farsi schiacciare dalla seconda a danno del primo, conduce all’appiattimento del processo rivoluzionario, alla sacralizzazione del mito della clandestinità e del segreto, alla monotonia della routine esecutiva.

Commisurare con la logica dell’assennatezza tutto quanto avviene nella realtà dello scontro, conduce ad una prevalenza degli aspetti regolativi dell’organizzazione. Si è ragionieri della rivoluzione. Più spesso esecutori di basse necessità. Indispensabili, certo, ma non per questo da sopravvalutare.

Abbandonarsi agli stimoli irrazionali della soggettività sgretola gli aspetti essenziali dei rapporti, la loro prevedibilità, la loro comprensibilità per tutti. Gli impegni presi vengono immolati sull’altare di una falsa creatività, scambiando la libertà del soggetto con la gratuità dei rapporti con gli altri. La serietà con la tetraggine, la gioia con la soddisfazione immediata.

Ed è proprio nella ricerca di una via costruttiva tra le due tendenze contraddittorie che bisogna sempre ricominciare daccapo per non smarrire il senso profondo della realtà rivoluzionaria.